Alle 4 del mattino del 30 aprile è iniziato a Seoul uno sciopero parziale del sindacato degli autobus.
I conducenti hanno protestato per il mancato raggiungimento di un accordo sugli aumenti salariali, provocando da subito forti disagi per i pendolari. La città ha cercato di correre ai ripari attivando rapidamente delle navette gratuite per garantire un minimo di mobilità.
Le informazioni su questi servizi alternativi, però, sono arrivate esclusivamente in lingua coreana. Non solo i messaggi d’emergenza inviati ai cittadini via SMS, ma anche tutte le comunicazioni pubblicate sui siti ufficiali dei distretti erano disponibili soltanto in coreano, senza traduzioni né versioni accessibili ai residenti stranieri.

Nessuna informazione accessibile per chi non parla coreano
Migliaia di residenti internazionali, molti dei quali vivono e lavorano stabilmente a Seoul, sono stati completamente tagliati fuori dalle comunicazioni d’emergenza. Chi non ha una buona padronanza del coreano si è ritrovato nell’impossibilità di capire cosa stesse accadendo, di sapere se ci fossero bus attivi, se fossero previste alternative, o a chi rivolgersi per informazioni. In altre parole: i residenti stranieri erano invisibili in un momento di crisi.
Non si è trattato di un’eccezione improvvisa o di un disguido tecnico. Si è trattato di un’esclusione sistemica: i canali ufficiali della città hanno parlato a una sola parte della popolazione, ignorando completamente l’altra. Il fatto che questo avvenga in una delle capitali più moderne e connesse del mondo non può passare inosservato.
La mancata promessa del governo coreano
Nel febbraio 2024, il Ministero dell’Interno e della Sicurezza sudcoreano aveva dichiarato l’intenzione di rendere i messaggi d’emergenza più accessibili anche ai residenti stranieri. Era stato annunciato l’inserimento di parole chiave in inglese per permettere una comprensione minima anche a chi non padroneggia il coreano. Ma da allora, nessun messaggio è stato realmente tradotto. La promessa è rimasta tale: nessun cambio di rotta, nessun miglioramento.
Eppure, in una situazione di emergenza, ogni secondo conta. Affidare la comprensione delle informazioni critiche a una traduzione “fai da te”, magari in mezzo a una stazione affollata o mentre si cerca di capire come arrivare al lavoro, non è una soluzione sostenibile. E non dovrebbe esserlo.
Una questione di inclusione, non solo di traduzione
Questo episodio non riguarda solo un disservizio tecnico o una dimenticanza linguistica. Riguarda una visione profonda e radicata: una cultura istituzionale ancora monolingue e centrata esclusivamente sul cittadino coreano, che fatica a includere nel proprio orizzonte chi non parla la lingua ma vive, lavora e partecipa alla vita della città.

È una contraddizione evidente per una società che si propone come hub internazionale, che investe milioni nel turismo globale, nei contenuti K-pop e kdrama, nel soft power e nella propria immagine nel mondo. Seoul si promuove come città dinamica, aperta e tecnologicamente avanzata. Ma l’inclusività vera si misura nei dettagli: nella possibilità di capire un messaggio d’allerta, nel poter sapere se il proprio autobus circola, nel non doversi affidare a un’app di traduzione per accedere a un’informazione di pubblica utilità.
L’inclusione linguistica è responsabilità pubblica. Non basta dire “ci sono strumenti per tradurre”. Il problema non è la mancanza di risorse. È il fatto che le istituzioni non considerano prioritaria l’esigenza di chi non parla coreano, scaricando su individui e tecnologie una responsabilità che dovrebbe essere pubblica.
Includere più lingue nei messaggi d’emergenza non è un favore da concedere né un gesto di cortesia: è un diritto da garantire e una responsabilità da assumersi. Ovunque, non solo in Corea.
Una città che vuole definirsi davvero internazionale non può permettersi di ignorare chi internazionale lo è. L’informazione, specie in contesti critici, deve parlare a tutti. E farlo in tempo.
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