Dal kintsugi al sashiko: la bellezza dell’imperfezione

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In Giappone esistono delle tecniche che ci raccontano di una società capace di creare qualcosa di innovativo e bellissimo partendo dagli scarti, dai pezzi di recupero, dalle cose rotte. Sono pratiche centenarie che hanno una storia interessante e caratteristiche peculiari che meritano di essere scoperte e apprezzate.

Partiamo in questo viaggio nelle antiche tradizioni e nella cultura del mondo giapponese.

Cosè il Sashiko. Origini e caratteristiche

Il Sashiko è un’antica tecnica di cucito nata in Giappone durante il periodo Edo (1603-1867). Consisteva nel mettere insieme scampoli di vestiti logori per creare nuovi capi, usando semplici punti continui ad ago. I nuovi vestiti diventavano così resistenti e caldi, ideali per riparare dal freddo i contadini del Nord durante i rigidi inverni.

All’epoca, la stoffa era un bene prezioso e la filatura era un’attività che richiedeva molto tempo. La capacità di rammendare i capi e dar loro nuova vita era necessaria per la sopravvivenza. Non stupisce quindi che il Sashiko prese piede e si diffuse rapidamente.

Nel corso del tempo questa tecnica si è evoluta e raffinata, senza però mai tradire la sua natura minimalista e sobria.

Nell’arte del Sashiko, l’obiettivo non è ‘nascondere’ la toppa ma esibirla, ed è per questo che tale pratica esprime perfettamente il principio giapponese del wabi-sabi (侘寂), che potremmo definire come «bellezza imperfetta» o incompiuta.

Il wabi-sabi, la bellezza imperfetta

Derivata dalla dottrina buddista, tale concezione è profondamente radicata nella cultura giapponese. L’espressione non è di facile traduzione.

Originariamente Wabi si riferiva alla solitudine della vita nella natura, mentre Sabi indicava “povero e freddo”. Progressivamente i due termini assunsero sfumature più positive. Oggi Wabi indica la semplicità, l’eleganza non ostentata. Sabi invece è la bellezza di ciò che appassisce e si usura col tempo. Davvero un’espressione molto suggestiva, che evoca un’eleganza malinconica e austera.

Dovessimo sintetizzare in una sola frase tutta la filosofia del wabi-sabi, diremmo che esprime una visione del mondo fondata sull’accettazione di ciò che è transitorio e imperfetto.

Kintsugi, l’arte di valorizzare gli oggetti rotti

Con il termine Kintsugi si intende la tecnica di ricomporre gli oggetti rotti, evidenziando le fratture con una colatura di metallo prezioso: oro, argento, platino. Queste venature, anziché tentare di mascherare la crepa, la esaltano, rendendola elegante, preziosa e unica nella sua sinuosa irregolarità.

Le origini di questa pratica sono molto antiche, ma non certe. Secondo la fonte più accreditata, pare che il Kintsugi sia nato quando, alla fine del XV secolo, lo shōgun Ashikaga Yoshimasa inviò in Cina una ciotola da the per delle riparazioni. Ciò che gli fu restituito non incontrò le sue aspettative. La ciotola era stata riparata con brutti punti metallici, il che spinse gli artigiani giapponesi a pensare un metodo di riparazione alternativo, che fosse esteticamente più piacevole.

Nacque così la pratica del Kintsugi, che piacque e si diffuse nel Paese a macchia d’olio arrivando fino ai giorni nostri.

Wabi-sabi e Kintsugi

L’arte del Kintsugi è intrecciata alla filosofia del Wabi-sabi. Accettando la vulnerabilità delle cose, la loro fragilità e transitorietà, questa tecnica trasforma gli oggetti vecchi o rotti creando qualcosa di nuovo e più bello. Ciò che il Kintsugi suggerisce è che la fine può rappresentare un nuovo inizio, e che dall’imperfezione può scaturire una bellezza unica e radiosa.

Cosa possiamo imparare dal modello giapponese

In un momento in cui si sente parlare sempre più spesso di consumo sostenibile e la salute del nostro Pianeta è un argomento che ci riguarda tutti, i temi del recupero, della valorizzazione e del riciclo sono particolarmente attuali.

E’ innegabile che noi occidentali viviamo in una società che ci spinge a ‘consumare’ gli oggetti in modo irresponsabile, accumulando, sostituendo o disfandoci con leggerezza delle cose.

Il modello giapponese porta con sé un grande insegnamento, dal quale possiamo trarre qualche linea guida per una condotta più consapevole e rispettosa dell’ambiente.

Mottainai, «che spreco»!

Il termine ‘Mottainai‘ indica lo spreco che si fa delle cose quando non si attribuisce loro il giusto valore. Si possono sprecare oggetti, ma anche il tempo.

E’ un concetto che abbraccia tutti gli ambiti dell’esistenza, ma che ha assunto una rilevanza centrale nel contesto ambientalista quando il Premio Nobel per la Pace keniota Wagari Maathai lo mise al centro della sua campagna ecologista, spiegando che il termine racchiude perfettamente l’idea delle 3R: Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. A queste, ne aggiunse una quarta, fondamentale: il Rispetto, uno dei cardini della cultura giapponese.

L’insegnamento che da tutto questo possiamo trarre è di vivere uno stile di vita più semplice e rispettoso dell’ambiente che ci circonda. Ispirandoci al modello giapponese, dovremmo imparare nel nostro piccolo a dare valore a ciò che abbiamo, prendendocene cura.

Non sono necessari grandi gesti eclatanti, ma basteranno piccoli accorgimenti. Mangiare tutto il cibo nel piatto. Acquistare alimenti in scadenza. Non sprecare l’acqua corrente. Trattare con attenzione i mobili della propria casa per farli durare nel tempo. Riparare gli oggetti anziché buttarli e comprarne di nuovi.

Questi sono solo alcuni esempi del modo in cui possiamo affrontare la vita in modo più consapevole e meno consumistico, assorbendo e facendo nostri i principi cardine della più antica filosofia giapponese.

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