Se c’è una cosa che Ripley dimostra in modo magistrale, è che il fascino del male non ha bisogno di colori. La miniserie di Steven Zaillian (già premio Oscar per la sceneggiatura di Schindler’s List), è un’esperienza visiva e narrativa che ipnotizza, incanta e inquieta, elevandosi a una delle migliori produzioni Netflix degli ultimi tempi. E gran parte del merito va a un Andrew Scott che si conferma interprete straordinario, capace di trasformare un personaggio già ampiamente raccontato in qualcosa di spiazzante e disturbante.
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Ripley, dal film alla serie TV: anatomia di un sociopatico
Dimenticatevi le luci patinate del Mediterraneo del film con Matt Damon, Jude Law e Gwyneth Paltrow. Se avete visto quella pellicola, ricorderete sicuramente un protagonista giovane, affascinante, a suo modo solare. Divorato dall’ansia di appartenere a un ambiente sociale che lo respingeva e desideroso di reinventarsi a ogni costo, nel film di Minghella Ripley era un trasformista, un funambolo dell’inganno che seduceva le persone accanto a sé.

Nella versione di Zaillian, invece, tutto questo svanisce. Al posto dell’irrequietezza febbrile, troviamo una calma inquietante. Al posto del fascino ambiguo, una freddezza chirurgica. Questo Ripley non vuole essere accettato: vuole semplicemente prendere ciò che gli serve, senza esitazioni.
Ma partiamo dall’inizio. Ripley è una miniserie in otto episodi, girata interamente in un elegante bianco e nero che amplifica l’atmosfera cupa e claustrofobica della storia. Tratta dal romanzo Il talento di Mr. Ripley di Patricia Highsmith, segue le vicende di Tom Ripley, un truffatore squattrinato che vive di espedienti nella New York degli anni ’60. Un giorno, viene ingaggiato dal ricco armatore Herbert Greenleaf per recarsi in Italia e convincere il figlio Dickie a tornare a casa.
Ripley accetta, ma quello che dovrebbe essere un semplice incarico si trasforma presto in un gioco di manipolazioni e inganni. Affascinato dallo stile di vita privilegiato di Dickie e della sua fidanzata Marge, Tom si insinua nelle loro vite con un piano preciso: cancellare la sua vecchia identità e impadronirsi di una nuova. Ciò che segue è un viaggio spietato nella mente di un uomo che non si fa scrupoli a mentire, ingannare e uccidere pur di ottenere ciò che vuole.
Il talento di Mr. Andrew Scott
Se Ripley funziona così bene, è perché l’intera serie si poggia sulle spalle della monumentale interpretazione di Andrew Scott. Il suo Tom Ripley non è il truffatore carismatico e tormentato che abbiamo visto in altre versioni. E’ un predatore silenzioso, un uomo privo di empatia, che non cerca di conquistare la fiducia altrui con il fascino o le abilità sociali. Scott lo interpreta con un distacco rabbrividente, rendendo inizialmente difficile per lo spettatore entrare in sintonia con lui. Ma è proprio in questa freddezza che risiede la sua forza.

Ripley si muove tra le persone con un’inquietante rigidità, come se ogni conversazione, ogni sorriso forzato, fosse uno sforzo calcolato ma innaturale. Non sa davvero come essere piacevole, e la maschera che indossa sembra incollata addosso, qualcosa che non gli appartiene mai del tutto. Noi spettatori vediamo oltre: dietro il suo volto impassibile c’è un vuoto che divora tutto, un’assenza di vero coinvolgimento, un desiderio inesprimibile di essere altro, di prendere senza dare nulla in cambio.
Ma c’è chi riesce a intravederlo, a percepire quello che si nasconde sotto la superficie. Marge, per esempio, non si fiderà mai di lui. Fin dal primo momento lo guarda con sospetto, lo considera un opportunista, un uomo fuori posto che cerca di insinuarsi in un mondo che non gli appartiene.

Ripley avverte il sospetto di Marge e si sforza molto di piacerle, ma invano. Con Marge, la maschera è sempre stata un po’ scivolata, lasciando intravedere più di quanto avrebbe dovuto. È lei che, con il suo sguardo indagatore, lo mette sotto pressione fino a incrinare il suo autocontrollo. A Venezia, in un momento di tensione, Ripley finisce per tradirsi, confondendo i nomi di Tom e Dickie davanti a lei. E quel lapsus non è un dettaglio da poco: è la dimostrazione che Marge aveva ragione a dubitare, che il suo istinto non l’ha mai ingannata.
E pur tuttavia siamo di fronte a uno dei rari errori di Ripley. Il modo in cui l’uomo tesse il suo piano criminale è chirurgico, freddo e metodico. Abbiamo un’idea di quale sia la vera natura di Ripley quando lo vediamo nel suo habitat. Tra piccoli criminali e ricettatori, nel momento di sbarazzarsi di un cadavere, lo vediamo finalmente togliersi la maschera. E notiamo il modo in cui il linguaggio del suo corpo cambia.

Non più sorrisi sghembi, occhi vuoti e una postura rigida. Quando Ripley può concedersi di essere se stesso, cioè il freddo criminale che è, sprigiona magnetismo, una seduttività ferina e una feroce determinazione. Lo vediamo, ad esempio, nell’incontro con Carlo, il camorrista intermediario della vendita della barca di Dickie. Qui Ripley non è più un intruso, non ha bisogno di fingere. Si muove con sicurezza, parla con calma, gestisce la situazione senza incertezze. Non cerca di piacere, non cerca di convincere: prende il controllo con un’autorità naturale, come se fosse sempre stato parte di quel mondo.
È in questi momenti che il vero Ripley emerge, ed è proprio allora che comprendiamo fino in fondo quanto sia pericoloso. Non è un uomo alla ricerca di accettazione, ma un predatore perfettamente consapevole di ciò che vuole e di come ottenerlo.
Un’ascesa senza fine: le scale, l’arte e l’ambizione di Ripley
La serie, con la sua estetica raffinata e la sua regia calibrata al millimetro, trasforma il viaggio di Ripley in qualcosa di ancora più grande. Non è solo l’ascesa di un impostore, ma un racconto visivo costruito con simboli potenti e rimandi artistici che amplificano il senso di ineluttabilità della sua scalata.

Le scale, onnipresenti, lo accompagnano in ogni sua tappa. Gradini sbrecciati, scalinate monumentali. Ripley in ogni episodio si ritrova a salirli col fiatone, quasi a schiacciato dal peso della sua stessa ambizione.
Ogni gradino è una menzogna ben riuscita, un passo più vicino alla sua trasformazione definitiva. La fatica fisica diventa metafora del suo percorso. Ripley non è un uomo che si lascia trasportare dalla corrente, è qualcuno che lotta, che si arrampica, che non accetta di restare in basso. Il suo è un viaggio ascensionale nel senso più letterale, ma anche crudele, perché ogni scalino è segnato da un inganno, da una morte, da un’identità rubata.
Ripley e la sua ossessione per Caravaggio
Ma la vera chiave di lettura per comprendere Ripley potrebbe essere un’altra figura, che aleggia su tutta la serie: Caravaggio. L’artista maledetto, il genio in fuga, il pittore in bilico tra luce e tenebra.
Non è un caso che Ripley sembri identificarsi con lui, che il suo sguardo si soffermi sulle sue opere con un’intensità che sfiora l’ossessione. Basti pensare al modo in cui Ripley reagisce quando Marge versa il vino sul libro di Caravaggio, quel vino rosso che scorre come sangue sulle foto dei quadri e che lui pulisce immediatamente cercando di convincere se stesso che “è solo un libro”.

Come Caravaggio, anche Ripley è un fuggitivo. Anche lui vive di inganni e chiaroscuri. Trovo interessante che la luce (fonte di bellezza e disvelamento nelle tele del Caravaggio, quella stessa luce che lo incanta dal vivo e che il frate gli indica come fulcro della tecnica dell’artista) per Ripley diventi la scintilla dell’inganno supremo, il dettaglio che gli permetterà di salvarsi dall’ispettor Ravini.
D’altra parte, Ripley non si limita a guardare i suoi quadri, li ascolta. Le figure dipinte gli parlano, gli sussurrano qualcosa. Forse perché, come lui, anche Caravaggio è un animo irrequieto, sempre in fuga. Non è un caso che l’ultima puntata si apra con una sorta di allucinazione sul pittore milanese che, subito dopo aver commesso il suo omicidio, dice: «Ho bisogno di un posto dove stare».
E proprio come nei dipinti di Caravaggio, anche nella serie la luce non esiste senza l’ombra. L’uso magistrale del bianco e nero non è una semplice scelta estetica, ma un gioco raffinato di sfumature, un’infinita scala di grigi che avvolge ogni scena in una coltre di ambiguità. Il contrasto è violento, tra luci accecanti e tenebre che inghiottono tutto, rendendo ogni dettaglio più tagliente, ogni volto più indecifrabile, ogni menzogna più sottile.
Ripley: un capolavoro contemporaneo? Assolutamente sì!
Ripley non è una serie per tutti. Non è un thriller d’azione, non è una storia di inganni raccontata con il fiato corto. È un’opera raffinata, lenta e stratificata, che richiede attenzione e pazienza. Ma per chi è disposto a lasciarsi trascinare nel suo mondo oscuro e sofisticato, è un’esperienza unica e avvolgente.
Anche il suo protagonista agisce allo stesso modo: Tom Ripley non è uno di quei personaggi che catturano immediatamente. Al contrario, entra sotto pelle poco alla volta, insinuandosi nella mente dello spettatore con la stessa metodica lentezza con cui si insinua nella vita delle sue vittime. Non è affascinante nel senso convenzionale, né conquista con il carisma, ma è impossibile smettere di osservarlo. Il suo magnetismo freddo, torbido, privo di calore umano, agisce come un veleno a rilascio lento: all’inizio lo si osserva con distacco, quasi con diffidenza, ma quando la malia è completata, è troppo tardi per sottrarsi. Siamo ormai dentro la sua mente, invischiati nei suoi crimini, incapaci di distogliere lo sguardo.

Zaillian costruisce la suspense come Hitchcock, dosando gli elementi con una precisione quasi maniacale. Il risultato? Un’angoscia sottile che cresce episodio dopo episodio, una tensione che non esplode mai del tutto, ma si insinua sotto la pelle e ci tiene incollati allo schermo.
E se c’è un consiglio da seguire, è quello di guardarlo in lingua originale. Il lavoro fatto dagli attori con l’italiano è straordinario e si perderebbe con il doppiaggio. Ho letteralmente adorato quando Andrew Scott ha sbagliato l’accento, non so quanto spontaneamente o per copione, e ha detto «domestìci». Una crepa nell’immagine di un impostore quasi perfetto.
Con una regia impeccabile, un’estetica sublime e un Andrew Scott al massimo della forma, Ripley è un noir moderno che non ha paura di prendersi i suoi tempi e di giocare con il silenzio e la tensione. E in un panorama televisivo spesso ossessionato dalla velocità e dal colpo di scena facile, è un gioiello raro e prezioso.
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