Trigger, il nuovo thriller coreano di Netflix con Kim Nam-gil e Kim Young-kwang, sembrava avere tutte le carte in regola: un cast solido, una premessa potente e l’occasione di affrontare un tema delicato come la diffusione delle armi in un Paese che non le conosce. Il risultato, però, non è all’altezza delle aspettative.
Dietro l’apparenza di un crime avvincente si nasconde infatti una trama fragile, piena di buchi di sceneggiatura, personaggi poco sviluppati e un villain che convince solo a tratti. In questa recensione vi spiego perché, nonostante le buone premesse, Trigger finisce per essere uno dei flop più rumorosi dell’estate Netflix.
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Trigger, la trama. Di cosa parla il thriller coreano dell’estate 2025
La vicenda di Trigger prende il via quando un ingente traffico di armi illegali sconvolge la Corea del Sud, un Paese dove il possesso di pistole è vietato e la popolazione non è abituata a convivere con questo tipo di minaccia. All’improvviso cittadini comuni, studenti, criminali e persone in difficoltà si ritrovano con un’arma in mano, e il fragile equilibrio della società comincia a sgretolarsi.

Al centro della storia c’è Lee Do (Kim Nam-gil), ex cecchino militare oggi poliziotto, che cerca di fermare l’escalation di violenza e scoprire l’origine del traffico. Di fronte a lui si erge Moon Baek (Kim Young-kwang), mente dietro la distribuzione delle armi. Non lo muove il denaro, ma un’ideologia perversa, quella di destabilizzare la società e dimostrare quanto sia facile innescare il caos.
Intorno a loro, si intrecciano diverse sottotrame. Abbiamo un ragazzo bullizzato, che trova in una pistola il modo di difendersi. Una madre è in cerca di vendetta per la morte del figlio. Un uomo accusato di violenza sessuale, e interi gruppi criminali approfittano della situazione. Insomma, episodio dopo episodio, la serie mostra come le armi, finite nelle mani sbagliate, possano diventare il grilletto che scatena rabbia, paura e vendette personali.
Trigger, la recensione
Una premessa forte, un’esecuzione fragile
L’idea da cui il drama prende le mosse è potente. Le armi invadono una società “gun-free” e stravolgono equilibri e gerarchie.
I primi episodi funzionano perché mostrano persone comuni davanti a scelte estreme. C’è tensione, c’è ritmo, c’è la possibilità di dire qualcosa di serio sulla violenza e sul controllo sociale. Poi la serie si inceppa. L’azione resta, la visione d’insieme si perde completamente.
Una sceneggiatura piena di buchi logici
Il problema principale è la sceneggiatura. La polizia viene spesso resa completamente inetta per esaltare l’eroe solitario.

Le situazioni implausibili si accumulano. Una stazione di polizia in balìa di un singolo aggressore; la facilità con cui minorenni e adulti reperiscono armi “cercandole su internet”, mentre le forze dell’ordine sembrano non aver mai sentito parlare di internet; un protagonista che sopravvive a ferite multiple da arma da fuoco e torna operativo in tempi irreali. La sospensione dell’incredulità collassa e con essa l’interesse verso la trama.
I personaggi: attori eccellenti, archi narrativi deboli
Kim Nam-gil dà corpo a Lee Do, ex cecchino diventato detective. È una figura empatica ma dura quando serve, segnata da un trauma infantile e dal peso delle vite tolte in passato. Il conflitto etico del personaggio — un uomo che non vuole più sparare, costretto a farlo per salvare vite — avrebbe potuto essere il fulcro della serie. Invece resta accennato. La storia preferisce mostrarlo come eroe indistruttibile piuttosto che scavare nella sua fragilità.
Moon Baek (Kim Young-kwang) è il villain con il potenziale più grande. Carismatico, magnetico, con un passato oscuro che lo rende plausibile. Per un attimo sembra davvero l’antagonista destinato a reggere il peso del racconto. Ma dopo la sua “rivelazione”, la scrittura lo semplifica eccessivamente. Diventa un cattivo patinato, più posa che sostanza, incapace di incarnare davvero quel lato speculare e disturbante che avrebbe reso lo scontro con Lee Do memorabile.

Sono attori straordinari, e il loro talento dà spessore a figure che altrimenti rischierebbero di restare piatte. Ma la sensazione è che Kim Nam-gil e Kim Young-kwang abbiano fatto molto più di quanto il copione offrisse loro. Non bastano due protagonisti intensi se i loro archi narrativi sono privi di sviluppo e se il conflitto morale, potenzialmente ricchissimo, resta solo abbozzato.
Trigger, molta azione poca sostanza
In Trigger l’azione non manca. Le sequenze sono ben girate e adrenaliniche. La tensione si mantiene alta, con picchi come la sparatoria a scuola dell’episodio 6, uno dei momenti più riusciti e coinvolgenti della serie. Ma oltre all’impatto visivo resta davvero ben poco.
Le domande più importanti rimangono sospese. Cosa significa davvero mettere un’arma nelle mani di un cittadino comune? Quali sono le conseguenze psicologiche, sociali e morali di un simile scenario? La serie preferisce la scorciatoia del fuoco incrociato alla fatica di un’indagine approfonda. Punta piuttosto a una violenza fine a sé stessa.
Non stupisce che molti abbiano paragonato Trigger a Mercy for None. Entrambe le produzioni Netflix condividono gli stessi problemi di scrittura, la stessa ambizione mal calibrata e lo stesso scivolamento verso un action privo di sostanza.
In definitiva, Trigger si lascia guardare se si cerca pura azione. Ma per chi si aspetta un thriller con contenuto e riflessioni, resta soprattutto una grande occasione mancata.
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